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UN LUNGO INVERNO SENZA FUOCO
(TOUT UN HIVER SANS FEU)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 15 aprile 2005
 
di Greg Zglinski, con Aurélien Recoing, Marie Matheron, Gabriela Muskala, Blerim Gyoci (Svizzera, 2004)
 
Duro e tenero, lucido e commosso, immerso negli spazi che ci sono più vicini, nei significati sociali e nelle implicazioni politiche svizzere come nell'intimità splendidamente messa a nudo dei propri personaggi TOUT EN HIVER SANS FEU è il film più bello, il più giusto che il nostro cinema abbia mostrato nei vent'anni che ci separano da HOHENFEUER di Fredi Murer.

Semplice ed immenso come la vicenda che racconta; quella del contadino Jean che perde nell'incendio della stalla la figliola di cinque anni, oltre che gran parte dei beni e la salute mentale della moglie. Che lascerà la sua campagna, il gelo splendido e feroce dell'inverno nel Giura per bruciare al calore abbagliante della fonderia in città. Per incontrare non solo Labinota, la riservata, luminosa rifugiata kossovara che ha perso la famiglia nella guerra dei Balcani. Ma tutta una realtà altrettanto dura; sradicata, come quell'albero che si fracassa al suolo nelle prime immagini del film. La dimensione degli immigrati, che da medici o insegnanti che erano si ritrovano come il protagonista alla prese con un mestiere, oltre che con un ambiente straniero. Solitudini diverse, che nella conoscenza ritroveranno l'energia, la comprensione reciproca per ritornare a vivere.

C'è voluto un altro immigrato, per cogliere con infinito pudore poetico e lucido realismo psicologico la consolazione offerta da quell'esilio parallelo: in un dramma rurale che finisce per accomuna l'infinitamente piccolo dell'intimità individuale all'infinitamente grande del destino dei popoli, dei progetti delle società. Al suo primo lungo, dopo il mediometraggio A SON IMAGE che l'intuito di Gérard Ruey e Jean-Luois Porchet della CAB Productions aveva saputo cogliere sapientemente, Greg Zglinski è infatti emigrato dall'età di dieci anni a Wettingen, al seguito del padre ricercatore fisico. Si è cosi formato a contatto con la nostra realtà (“con le mie radici che si perdono in due culture; ma con un distacco dalle stesse che mi permette di raccontare delle storie”); prima di ritornare all'università d Lodz, alla scuola di cinema di Krzysztof Kieslowski. Il maestro polacco, per certi aspetti sublimato, ma pure liberato da certi condizionamenti nelle immagini che l'allievo ha pensato sulla sceneggiatura essenziale, i dialoghi scarni ma sempre rivelatori di Pierre-Pascal Rossi, ex redattore della Televisione Svizzera romanda.

Immersi nell'ambiente cupo e rivelatore del nevischio e del benessere esteriore e ormai incerto di quel Milieu du Monde caro all' Alain Tanner dei tempi d'oro, i personaggi di TOUT EN HIVER SANS FEU si stagliano come pietre scolpite nei propri destini. Grazie al rigore, alla verità della presenza ambientale, che evita ogni compiacimento, ogni rischio di sconfinare nel patetismo; grazie alla qualità di uno sguardo cinematografico affidato all'equilibrio ed alla sensibilità di una visione intransigente, interamente costruita sul potere delle immagini, la suggestione dei suoni o delle musiche. Senza spiegazioni, che non siano quelle che lo spettatore finisce per intuire spontaneamente (e quindi tanto più profondamente) da due sguardi che s'incrociano per un attimo, una frase interrotta a metà che si perde nelle convenzioni del quotidiano, il triciclo abbandonato in un angolo, l'alito che appanna il vetro della finestra come l'incandescenza del metallo che fonde.

All'interno di uno sfondo autentico che come nel cinema più alto concorre a significarla nel più profondo, la scelta degli attori, isolati, ancorati alle loro psicologie, ad una loro disperazione che riesce a liberarsi addirittura in gioia e consolazione è impeccabile. Inscindibile dal ricordo che il film lascia nella mente, Aurélien Recoing ripropone la figura di solitudine dolorosa, lo sguardo ferito e comprensivo che ha reso indimenticabile L'EMPLOI DU TEMPS di Laurent Cantet. La presenza inedita, sensibilissima dell'attrice polacca Gabriela Muskala tarduce la sensualità fragile e ferita dello splendido personaggio femminile che non si rassegna alla scomparsa del marito; quell'altra accettazione, muta, infinitamente dignitosa, grazie alla quale il protagonista troverà la forza di affrontare il proprio destino. E, di contrappeso alla figura dolente della moglie interpretata da Marie Matheron quelle irruenti, esemplari nella propria vitalità della comunità degli immigrati.

Selezionato per il Concorso all'ultima Mostra di Venezia (ed era la prima volta che succedeva ad un nostro film da 15 anni), premiato come Miglior film svizzero dell'anno TOUT EN HIVER SANS FEU rappresenta una magnifica, preziosissima lezione di vita. Oltre che di cinema.


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